Quando e se in futuro vi chiederanno dove vi trovavate il 6 aprile 2020, molti di voi risponderanno «a casa». E se vi chiedessero dove eravate il 6 aprile 1992? Per quanto vi sforzerete, probabilmente, non riuscirete a ricordarlo. Dopo ventotto anni c’è chi, invece, quella data non riesce a dimenticarla. Così come non può dimenticare i mille e più giorni che vi hanno fatto seguito. Tra questi Zlatko Dizdarević, giornalista, nato jugoslavo nell’attuale Serbia (Belgrado, 1948). È cresciuto nella capitale serba, fino a quando la sua famiglia non ha deciso di trasferirsi a Sarajevo. La sua storia è caratterizzata dalla naturale commistione delle molte nazionalità dell’ex Jugoslavia, simile a quella di tante altre famiglie, per cui «non aveva nessuna importanza se eri serbo, croato o musulmano».
Questo almeno fino al 6 aprile 1992.
Nei libri Giornale di guerra. Cronaca di Sarajevo assediata e Lettere da Sarajevo pubblicati in Italia rispettivamente nel 1994 (Sellerio) e nel 1998 (Feltrinelli), a oggi entrambi fuori catalogo, Dizdarević ha provato a mettere ordine agli eventi che hanno sconvolto la Bosnia e, in particolare, la sua città. Anche se il concetto di ordine durante una guerra è tutt’altro che univoco.
Nel primo, la scrittura assume una forma diaristica per raccontare cosa è accaduto tra l’aprile 1992 e l’ottobre 1993; ma più che un diario al quale affidare i propri pensieri, ci troviamo di fronte a un giornale attraverso il quale l’autore ci informa e prova a renderci partecipi della situazione. Dizdarević sovrappone coscienziosamente l’orrore della guerra alle «piccole storie intime» degli abitanti di Sarajevo; i testi raccolti nel libro, come dice l’autore stesso nell’introduzione, «non trattano direttamente della politica o dei giochi della comunità internazionale, impenetrabili ai nostri sarajevesi. Tentano piuttosto di raccontare cosa succede alla gente comune, in una città che non vuol saperne di morire».
Questo è ciò che disorienta il lettore, che si sente vicino alla gente comune ma non riesce, o almeno non del tutto, a immedesimarsi, a concepire lo sfondo di una realtà così cruda e spiazzante. Non è tanto la forma, quanto la verità a confondere. Le pagine provocano ansia, paura. Non quella che hanno provato gli abitanti di una città sotto assedio, ma quella di sapere che tutto ciò che si sta leggendo è successo davvero. E la paura, che come scrive Dizdarević è il più umano fra i connotati umani, è anche quella di essere un giorno giudicati per aver voltato le spalle mentre tutto questo succedeva a pochi chilometri dall’Italia.
Tacciato da alcuni di cinismo, la cifra di Dizdarević è quella giornalistica, onesta, spassionata. Non sappiamo molto del suo carattere prima della guerra, ma possiamo intuire dalle sue stesse parole come questa possa avere un impatto decisivo sul modo che abbiamo di vedere le cose. «Qui la gente è inasprita, dunque onesta: se sono onesti, sono pazzi, e se sono pazzi, devono lottare con l’assurdo sperando di avere una chance di vincere. Ecco a che punto siamo arrivati». Qualcuno è più resistente di altri: «In questa situazione non si può che invidiare quelli che hanno nervi solidi, che non hanno perduto il senso dell’humour e che riescono a dedicarsi a una qualsiasi attività. In qualche modo misterioso sono loro a impedire alla città di sprofondare».
In alcuni passaggi, Dizdarević lascia emergere il suo lato sensibile, la sua partecipazione emotiva. Tra vite strappate, quelle di chi è stato ucciso, e angosciate, quelle di chi rimane, nonostante le certezze sradicate e le speranze svilite, ci regala un’immagine contrastante e inaspettata: è arrivata la primavera a Sarajevo, i cortili sono immersi nel verde, i rosai e i ciliegi sono in fiore. A malincuore racconta degli amici e dei colleghi persi, non solo quelli morti a causa di una mina o di un proiettile ma anche quelli da cui si è separato. Tra questi ultimi ci sono, da una parte, «quelli che hanno vinto la loro battaglia col passato e con il destino malefico di queste terre», e dall’altra «quelli che sono stati sconfitti dalle loro stesse ombre e dal male cui non sono riusciti a resistere».
In questa matassa, che corre lunga attraverso i quartieri di Sarajevo e un po’ più in là fino a Mostar, a Jajce, a Gradacac, a Lukavica, un bandolo proprio non si trova, o forse non c’è mai stato. In compenso, una notizia insolita, che passa quasi in sordina nel luglio del ’92, salta agli occhi dell’autore: a qualcuno, in quel tempo così confuso e privo di riferimenti, ancora interessa l’orario; c’è, infatti, un negozio di orologi inspiegabilmente aperto in città. Dizdarević, durante gli oltre quaranta mesi di assedio, ha continuato insieme ad alcuni colleghi a portare avanti l’impegno nei confronti dei suoi concittadini, scrivendo regolarmente per il quotidiano di Sarajevo Oslobodjenje («Liberazione»). Sia nel primo che nel secondo libro si coglie la pericolosità dell’impresa. Il rischio di attraversare le strade, disseminate di cartelli «Pazi – Snajper» («Attenzione – Cecchini»), sotto il fuoco degli aggressori appostati sui tetti dei palazzi ancora in piedi, è altissimo.
Giornale di guerra. Cronache da Sarajevo assediata è una sorta di diario, Lettere da Sarajevo è, invece, una raccolta di tutti gli articoli scritti per La Repubblica da Zlatko Dizdarević durante gli ultimi anni della guerra, a partire dal 1994. Le date, presenti alla fine di ogni pezzo, indicano il giorno di pubblicazione sul quotidiano italiano. Fanno parte delle Lettere anche due inediti: «Buona notte, amici» dello stesso autore e la prefazione di Predrag Matvejevic (traduzione di Egi Volterrani), nato nell’attuale Croazia – pur definendosi anch’egli «jugoslavo». Questa da sola basterebbe al lettore per disanimarsi. Matvejevic definisce «epica» l’attività giornalistica condotta in quel periodo dall’amico bosniaco e da alcuni dei suoi colleghi. In questi articoli, delle vere e proprie lettere inviate al quotidiano, che forse attendevano una risposta concreta da chi le leggeva, la scrittura di Dizdarević si fa più dura. Sono trascorsi due anni da quel 6 aprile, la situazione è diventata ancora più pericolosa.
Se alla fine del ’93, quando i bombardamenti erano più rari, i sarajevesi si erano concessi il lusso di sperare, avevano creduto che poco a poco sarebbero tornati a vivere, all’inizio del ‘94 il sentimento è che attorno a ciascuno «il cerchio della morte si stringa sempre di più». Le pagine di questa ulteriore testimonianza sono pregne di dolore e umiliazione, ma anche di sfiducia e delusione. La presa di coscienza è netta: non è solo la città a essere devastata, ma anche i cittadini di Sarajevo non saranno più gli stessi. L’odio si sta lentamente insinuando nei gesti, nei pensieri, nelle parole scritte e orali.
Le Lettere esplicitano il processo individuale che l’autore istruisce nei confronti dell’Onu, dell’Unione Europea, dell’Unprofor (Forza di protezione delle Nazioni Unite). Emozioni e opinioni condivise da molti concittadini (ma non soltanto da loro) di Dizdarević. Ne scrive anche Matvejevic, proprio in quella prefazione di cui si accennava: «Abbiamo nutrito sentimenti affini nei confronti di eventi e istituzioni: di un’Onu inadeguata ai cambiamenti del nostro mondo, di una Nato rimasta prigioniera della Guerra Fredda, di un’Unione Europea che si preoccupava così poco del resto dell’Europa, di una Russia che tentava di riassumere il ruolo che era stato dell’Unione Sovietica, di un’Unprofor incaricata di un compito allo stesso tempo assurdo e paradossale – quello di “mantenere la pace” laddove non c’era altro che guerra –, di tanti giochi, a malapena mascherati, delle grandi potenze e dei loro interessi»[1].
Con amarezza e rassegnazione Dizdarević osserva che a uccidere Sarajevo sono state le decine di trattative intavolate a New York, a Ginevra, a Bruxelles, a Napoli. Sono state le continue violazioni dei cessate il fuoco, le risoluzioni e i patti ignorati. E mentre le grandi potenze organizzano conferenze, la guerra, quella vera, fatta con granate, carri armati, e colpi di mortaio, prosegue a Sarajevo e in tutta la Bosnia. La matassa continua a imbrogliarsi, ad avviluppare tutte le città che trova sul suo percorso: Visoko, Tuzla, Zvornik, Srebrenica, Žepa, Goražde, Bihac. La realtà è, ormai, «nera e bianca, senza sfumature, senza tanti sentimenti, in frantumi e stracci».
Con questo stato d’animo si è giunti alla fine della guerra in Bosnia-Erzegovina, che si fa ufficialmente risalire all’Accordo di Dayton (Ohio, USA). Alla conferenza per la pace, tenutasi nel novembre 1995 e guidata dal mediatore statunitense Richard Holbrooke, partecipano il presidente bosniaco Alija Izetbegovic, quello croato Franjo Tudjman e quello serbo (che rappresentava anche i serbi di Bosnia) Slobodan Miloševic. I colloqui si concludono con la divisione della Bosnia Erzegovina in due entità: la Federazione croato-musulmana e la Repubblica Srpska (Serba), che deterranno rispettivamente il 51 e il 49 percento del territorio bosniaco. Per Dizdarević la pace di Dayton si basa su interessi politici e calcoli sbagliati, a spese dei quasi due milioni di rifugiati che non potranno fare ritorno alle loro case. «A Dayton la forza ha vinto sulla giustizia. […] Tra una pace artificiale e una giustizia elementare è stata scelta la prima».
Vite mutilate
Per quanto scritti sotto l’impulso di percezioni diverse, tra Lettere da Sarajevo e Giornale di guerra sembra esserci una certa consequenzialità. Pensieri, preoccupazioni, timori, frutto della stessa guerra protrattasi negli anni, ritornano con insistenza in entrambi i volumi. Le atrocità dell’assedio si manifestano nella scrittura di Dizdarević anche attraverso i molti riferimenti alle storie dei bambini.
Neno, Irma, Rade, Zdravko, Nermin, sono alcuni dei nomi di bambini morti sotto il fuoco fratricida o che hanno perso tutto: casa, famiglia, infanzia, gioia di vivere. I reparti pediatrici (o quel che ne rimane) affollati, le mutilazioni e i sogni infranti sono il vero orrore di quanto accade a Sarajevo. Sono anche, forse, la più lampante dimostrazione che se non riescono a sopravvivere i bambini, per gli adulti non c’è più speranza. Tormentato dal pensiero dei propri figli lontani, l’autore fornisce dati spaventosi sui bambini rimasti in Bosnia: 16.821 morti, 34.581 feriti. Tra i sopravvissuti, molti rimarranno invalidi per sempre; tutti saranno adulti con problemi fisici e psicologici irrisolti.
«Chi sarà capace di perdonare i tic che questi bambini si porteranno dietro fino alla fine della vita?», è solo una delle tante domande angoscianti che l’autore rivolge a se stesso e al lettore.
Cure e rimedi
La domanda, che forse qualcuno si sarà posto, «come hanno fatto a sopravvivere?» appare quasi del tutto superflua; quella utile a capire ciò che hanno sopportato i sarajevesi è «a che prezzo sono sopravvissuti?». Per quanto riguarda la prima, Dizdarević dissemina accenni sui metodi, in entrambi i libri. Ad esempio, poiché la corrente elettrica non arriva più a Sarajevo, per procurarsi un po’ di luce si cercano batterie ancora funzionanti nelle carcasse delle auto abbandonate per strada. Anche l’erogazione dell’acqua è interrotta, e bisogna aspettare quella piovana per riempire quanti più secchi possibile. I soldi per acquistare il cibo, quando se ne trova, scarseggiano e, per molti, oltre alla fame cresce anche la vergogna. I tempi si prestano anche al ritorno del baratto, e, così, al mercato «un litro di alcool per lampade vale tre chili di zucchero, un barattolo di conserva (qualsiasi) si scambia contro dieci chili di farina».
In una via della città è stato montato un grande paravento che dalla cima di un edificio va giù verso il marciapiede: questa trovata rudimentale confonde i cecchini che dalle colline non vedono più i passanti. Inoltre, sembra che nel tempo gli abitanti abbiano sviluppato un senso dedicato a capire quando è il momento per uscire da casa e quando, invece, non lo è. Ogni tanto arrivano degli aiuti esterni, come batterie o generi alimentari inviati da amici che vivono in altri paesi. A volte dei pacchi di aiuti umanitari. Leggendo queste storie è facile compatire i bosniaci. Dizdarević, però, ne scrive non per suscitare commiserazione, quanto per testimoniare che lì a Sarajevo, in quella città che ha dimenticato tutto di sé, i cittadini andavano avanti comunque, contando solo su se stessi. «Non c’è niente eppure ce la caviamo».
Questioni irrisolte
Giornale di guerra si chiude con una nota di Adriano Sofri, intitolata Il secolo di Sarajevo. Questa città, scrive, «ha conquistato dunque un secondo titolo a significare la fine di un’Europa, e di un mondo. Povero Novecento: lo si dichiarò iniziato solo coi colpi di rivoltella di Sarajevo, nel 1914»[2]. D’altronde, come dirà Dizdarević, «il secolo è iniziato col nazionalismo sanguinario a Sarajevo, e con lo sciovinismo sanguinario a Sarajevo termina». Lettere da Sarajevo, invece, si conclude con una Guida alla lettura utile a contestualizzare quanto scritto dall’autore jugoslavo. Questo epilogo non è realmente definitivo, vale a dire che avremmo bisogno di un’ulteriore guida che vada dal ’96 a oggi per provare a comprendere la complessa questione bosniaca.
Se c’è, infatti, un luogo irrisolto molto vicino a noi, in un’Europa almeno geografica, quello è sicuramente Sarajevo. Irrisolto è il rapporto tra i suoi abitanti e la sua storia. La data dell’inizio della guerra è una miccia di discussione sempre accesa e arroventata. Nelle scuole della stessa città si seguono programmi di studio differenti a seconda della nazionalità degli studenti. Questa, Jovan Divjak la definisce «assimilazione, segregazione, nelle scuole così come in ogni aspetto della vita». Quando, dopo la Slovenia e la Croazia, la guerra arrivò anche in Bosnia-Erzegovina, nessuno si aspettava che potesse accadere veramente. Una città vecchia di sei secoli come Sarajevo non poteva essere rasa al suolo. Quei principi di pacifica convivenza non potevano venir meno. In un articolo del 2006 (su Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa), Dizdarević scrive: «La sanguinosa violenza su questa realtà, le divisioni, l’odio e il nazionalismo, sono stati proclamati come una costante storica, mentre la convivenza, la multiculturalità, la multiconfessionalità, la multietnicità come un progetto ideologico non sostenibile». Molte delle domande di Dizdarević sono rimaste senza risposta: «Che ne è delle vite come erano prima? Come sarà la nuova vita, se ce ne sarà una?». La tesi secondo cui gli accordi di Dayton abbiano posto fine alla guerra è ancora oggi molto dibattuta. In un intervento durante la conferenza “Vent’anni da Dayton”, svoltasi a Torino nel novembre 2015, è stato proprio Dizdarević ad affermare: «la guerra è fermata, ma non è conclusa». Con la pace stabilita nel ‘95, i sarajevesi avrebbero dovuto riacquistare anche la libertà di un tempo, ma «se questa “libertà” è fondata sulle divisioni e sull’odio, se per effetto di questa “libertà” non potranno più esserci matrimoni misti» che senso ha? Se viene imposta in questo modo, si può davvero definire libertà?
A poco più di due mesi dall’inizio della guerra, sempre meno incredulo, Dizdarević constatava già che niente era più come prima e mai lo sarebbe stato di nuovo: «una cosa non sarà perdonata mai né dimenticata, ed è che hanno spezzato in noi quel che c’era di meglio, che ci hanno insegnato a odiare. Ci hanno resi quali non eravamo stati mai – per questo faremo molta fatica a perdonarli». Per poi tornare a chiedersi «dove sta allora per noi la possibilità di un avvenire? Nel perdono?». Negli anni tutto è stato messo in discussione, rapporti, colpe, meriti, crimini, persino la guerra stessa. Nel 2018 un ex militare bosniaco mi ha detto: «Respect for all, but don’t forget what happened in 1992-1995». Tutto si può ridiscutere e può essere cambiato, tutto tranne la memoria.
[1] Per un’analisi approfondita sul ruolo dell’Onu durante il conflitto in Bosnia Erzegovina si rimanda al volume di Zlatko Dizdarević, scritto con l’amico e collega Gigi Riva, L’Onu è morta a Sarajevo (Il Saggiatore, 1995).
[2] Qualche anno dopo, sarà pubblicata in Italia una raccolta di articoli scritti tra il 1994 e il 1996 da Adriano Sofri per quotidiani e riviste, Lo specchio di Sarajevo (Sellerio, 1997). Libro in cui l’autore, entrato in contatto con i sarajevesi durante l’assedio, racconta della loro sopravvivenza fisica e culturale.
↔ In alto: foto © Mikhail Evstafiev / Vedran Smailović nel 1992 suona il violoncello tra i ruderi della Biblioteca nazionale di Sarajevo, semidistrutta durante l’assedio. / CC BY-SA
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